Febbraio 1730, stagione di carnevale. Al Teatro delle Dame di Roma va in scena con grande successo una nuova opera di Leonardo Vinci, apprezzatissimo compositore napoletano ben conosciuto dal pubblico romano. Tre settimane dopo al Teatro di San Giovanni Grisostomo (oggi Malibran) di Venezia il trentenne Johann Adolf Hasse, che già con diversi lavori si era fatto notare a Napoli, riceve un consenso straordinario.
Il primo ha, senza saperlo, presentato la sua ultima opera: morirà pochi mesi dopo a soli 34 anni, in circostanze mai chiarite; per il secondo si spalancano le porte della fama europea. Cosa accomuna questi due lavori? Il libretto! Proprio il nuovo dramma di Pietro Metastasio, fresco di nomina quale Poeta Cesareo della corte di Vienna, viene musicato quasi contemporaneamente dai due musicisti: si tratta dell'Artaserse. Lanciato sulle scene da questi primi eccellenti compositori, il dramma conoscerà un successo clamoroso: verrà infatti intonato, nel corso del secolo, da almeno ottanta musicisti tra i quali Gluck, Jommelli, J.C.Bach, Graun, Galuppi e Myslivecek, mentre Mozart ne utilizzerà i testi per diverse arie da concerto.
Per il suo settimo dramma Metastasio, come di consueto, non attinge ai popolari ed abusati soggetti della mitologia, ma affonda le mani nella storia antica, e per l'Artaserse porta sulle scene le fosche vicende della dinastia achemenide persiana: nel 465 a.C il Gran Re Serse, descrittoci da Erodoto come crudele e dispotico, venne assassinato insieme al figlio Dario dal visir Artabano, che prese la reggenza dell'impero. Il traditore finirà giustiziato un anno dopo, quando il figlio di Serse - Artaserse I appunto - riuscì a restaurare il potere legittimo della sua dinastia.
La storia raccontata da Metastasio, filtrata attraverso i drammi di Corneille e Crébillon, è questa: Artabano ha ucciso Serse, e chiede al figlio Arbace di nascondere l'arma del delitto; convince poi Artaserse della colpevolezza del fratello Dario per l'assassinio e gli strappa il consenso per un'immediata esecuzione. Nel frattempo Arbace viene trovato in possesso della spada insanguinata tra l'incredulità generale, e rifiuta di dare spiegazioni per non esporre il padre. La sorella Semira e l'amata Mandane, sorella di Artaserse, lo credono colpevole, mentre il re, influenzato dalla grande amicizia che li lega, non riesce a crederlo possibile.
Artaserse, pressato dai propositi di vendetta di Mandane e dalle suppliche di Semira, rimette ad Artabano il giudizio sul figlio. Il disgraziato padre, che in pubblico non può compromettersi, condanna a morte Arbace, ma in segreto trama un complotto per uccidere Artaserse e insediare il figlio sul trono.
Rinchiuso in carcere, Arbace è liberato da Artaserse che lo crede innocente. Giunto poi Artabano per lo stesso motivo trova la cella vuota e, credendo morto il figlio, decide di vendicarsi fomentando una rivolta durante l'incoronazione di Artaserse, che viene però sedata proprio da Arbace. Il re chiede al giovane di giurare pubblicamente sulla sua innocenza nel delitto, con una coppa in precedenza avvelenata da Artabano; è a questo punto che il perfido traditore cede e rivela le sue trame, venendo condannato a morte poi, grazie alle suppliche di Arbace, all'esilio. Evitata la tragedia, la scena è libera per il lieto fine.
Troviamo qui riuniti tutti gli ingredienti del dramma metastasiano: gli amori contrastati, il dovere filiale e l'amor paterno, la fedeltà al sovrano e il tradimento, la ragion di Stato e l'amicizia. Tutto ciò viene portato alla massima tensione tramite i rapporti incrociati tra i personaggi, in un climax di contrasti sempre più intollerabile fino al liberatorio scioglimento finale. Il modo migliore di esporre tali legami è attraverso uno schema:
Il dramma è costruito in modo estremamente funzionale alle esigenze teatrali e musicali, perfezionando la struttura rigidamente dualistica del dramma per musica (le continue sequenze recitativo-aria) per offrire ai cantanti il massimo risalto possibile; ciò senza comunque rinunciare ad uno stile poetico-letterario di alto livello. Nei recitativi, deputati allo svolgimento degli accadimenti, Metastasio cesella finemente la psicologia dei personaggi. Essi si palesano come personificazioni delle virtù dell'amicizia, della fedeltà e dell'eroismo ma, e qui si scorge la grandezza del Poeta cesareo, senza mai abdicare alla dimensione drammaticamente "umana", eredità dei modelli classici e francesi cui il dramma serio guarda. Motore della trama è l'indecisione umana (i conflitti tra amore e dovere, amicizia e patriottismo) e la virtù è ciò che giustifica e risolve l'indecisione. Vediamone un esempio nel quale questi aspetti vengono abilmente posti in estremo contrasto (Atto II, scena 2):
Fulcro ed esito determinante della scena è l'aria solistica, il momento in cui l'azione si ferma, il tempo è cristallizzato, e il personaggio reagisce o riflette sui fatti appena accaduti. Le arie esprimono i cosiddetti "affetti", rappresentano cioè di volta in volta un'immagine affettiva astratta o una precisa atmosfera sentimentale (fierezza, angoscia, amore fedele, affanno, ira...), commuovendo lo spettatore con al forza e la rappresentazione dei più svariati sentimenti che dilaniano i personaggi nel corso del dramma. Le arie sono accuratamente concepite secondo un preciso piano drammaturgico: mai si susseguono due arie di uguale o simile colore affettivo, e raramente allo stesso personaggio vengono affidate più arie del medesimo tono emotivo. Prendiamo le arie del protagonista per esemplificare quanto appena detto:
Arbace è l'eroe del dramma: figlio devoto, amante fedele e appassionato, suddito e amico leale. L'apparizione del padre che gli consegna la spada insanguinata senza fornirgli spiegazione alcuna lo pone in uno stato di profonda agitazione (Atto I, scena 2):
Fra cento affanni e cento
palpito, fremo e sento
che freddo dalle vene
fugge il mio sangue al cor.
Prevedo del mio bene
il marbaro martiro
e la virtù sospiro
che perde il genitor.
L'agitazione diventa completo smarrimento, espresso in una magnifica aria "di tempesta", quando tutto crolla in capo allo sventurato ed innocente ragazzo, additato come assassino dal padre, disprezzato dall'amata Mandane e abbandonato dalla sorella (Atto I, scena 15):
Vo solcando un mar crudele
senza vele e senza sarte;
freme l'onda, il ciel s'imbruna
cresce il vento e manca l'arte;
e il voler della fortuna
son costretto a seguitar.
Infelice! In questo stato
son da tutti abbandonato;
meco sola è l'innocenza
che mi porta a naufragar.
Per il suo settimo dramma Metastasio, come di consueto, non attinge ai popolari ed abusati soggetti della mitologia, ma affonda le mani nella storia antica, e per l'Artaserse porta sulle scene le fosche vicende della dinastia achemenide persiana: nel 465 a.C il Gran Re Serse, descrittoci da Erodoto come crudele e dispotico, venne assassinato insieme al figlio Dario dal visir Artabano, che prese la reggenza dell'impero. Il traditore finirà giustiziato un anno dopo, quando il figlio di Serse - Artaserse I appunto - riuscì a restaurare il potere legittimo della sua dinastia.
La storia raccontata da Metastasio, filtrata attraverso i drammi di Corneille e Crébillon, è questa: Artabano ha ucciso Serse, e chiede al figlio Arbace di nascondere l'arma del delitto; convince poi Artaserse della colpevolezza del fratello Dario per l'assassinio e gli strappa il consenso per un'immediata esecuzione. Nel frattempo Arbace viene trovato in possesso della spada insanguinata tra l'incredulità generale, e rifiuta di dare spiegazioni per non esporre il padre. La sorella Semira e l'amata Mandane, sorella di Artaserse, lo credono colpevole, mentre il re, influenzato dalla grande amicizia che li lega, non riesce a crederlo possibile.
Artaserse, pressato dai propositi di vendetta di Mandane e dalle suppliche di Semira, rimette ad Artabano il giudizio sul figlio. Il disgraziato padre, che in pubblico non può compromettersi, condanna a morte Arbace, ma in segreto trama un complotto per uccidere Artaserse e insediare il figlio sul trono.
Rinchiuso in carcere, Arbace è liberato da Artaserse che lo crede innocente. Giunto poi Artabano per lo stesso motivo trova la cella vuota e, credendo morto il figlio, decide di vendicarsi fomentando una rivolta durante l'incoronazione di Artaserse, che viene però sedata proprio da Arbace. Il re chiede al giovane di giurare pubblicamente sulla sua innocenza nel delitto, con una coppa in precedenza avvelenata da Artabano; è a questo punto che il perfido traditore cede e rivela le sue trame, venendo condannato a morte poi, grazie alle suppliche di Arbace, all'esilio. Evitata la tragedia, la scena è libera per il lieto fine.
Troviamo qui riuniti tutti gli ingredienti del dramma metastasiano: gli amori contrastati, il dovere filiale e l'amor paterno, la fedeltà al sovrano e il tradimento, la ragion di Stato e l'amicizia. Tutto ciò viene portato alla massima tensione tramite i rapporti incrociati tra i personaggi, in un climax di contrasti sempre più intollerabile fino al liberatorio scioglimento finale. Il modo migliore di esporre tali legami è attraverso uno schema:
Il dramma è costruito in modo estremamente funzionale alle esigenze teatrali e musicali, perfezionando la struttura rigidamente dualistica del dramma per musica (le continue sequenze recitativo-aria) per offrire ai cantanti il massimo risalto possibile; ciò senza comunque rinunciare ad uno stile poetico-letterario di alto livello. Nei recitativi, deputati allo svolgimento degli accadimenti, Metastasio cesella finemente la psicologia dei personaggi. Essi si palesano come personificazioni delle virtù dell'amicizia, della fedeltà e dell'eroismo ma, e qui si scorge la grandezza del Poeta cesareo, senza mai abdicare alla dimensione drammaticamente "umana", eredità dei modelli classici e francesi cui il dramma serio guarda. Motore della trama è l'indecisione umana (i conflitti tra amore e dovere, amicizia e patriottismo) e la virtù è ciò che giustifica e risolve l'indecisione. Vediamone un esempio nel quale questi aspetti vengono abilmente posti in estremo contrasto (Atto II, scena 2):
[...] | |
ARTABANO | |
Pur mi riesce, o figlio, | |
di salvar la tua vita. Io chiesi ad arte | |
all’incauto Artaserse | |
640 | la libertà di favellarti. Andiamo; |
per una via che ignota | |
sempre gli fu, scorgendo i passi tui, | |
deluder posso i suoi custodi e lui. | |
ARBACE | |
Mi proponi una fuga | |
645 | che saria prova al mio delitto? |
ARTABANO | |
Eh vieni | |
folle che sei. La libertà ti rendo; | |
t’involo al regio sdegno; | |
agli applausi ti guido e forse al regno. | |
ARBACE | |
Che dici? Al regno! | |
ARTABANO | |
È da gran tempo, il sai, | |
650 | a tutti in odio il regio sangue. Andiamo; |
alle commosse squadre | |
basta mostrarti. Ho già la fede in pegno | |
de’ primi duci. | |
ARBACE | |
Io divenir ribelle? | |
Solo in pensarlo inorridisco. Ah padre, | |
655 | lasciami l’innocenza! |
ARTABANO | |
È già perduta | |
nella credenza altrui. Sei prigioniero | |
e comparisci reo. | |
ARBACE | |
Ma non è vero. | |
ARTABANO | |
Questo non giova. È l’innocenza, Arbace, | |
un pregio che consiste | |
660 | nel credulo consenso |
di chi l’ammira; e se le togli questo, | |
in nulla si risolve. Il giusto è solo | |
chi sa fingerlo meglio e chi nasconde | |
con più destro artifizio i sensi sui | |
665 | nel teatro del mondo agli occhi altrui. |
ARBACE | |
T’inganni. Un’alma grande | |
è teatro a sé stessa. Ella in segreto | |
s’approva e si condanna | |
e placida e sicura | |
670 | del volgo spettator l’aura non cura. |
ARTABANO | |
Sia ver, ma l’innocenza | |
si dovrà preferir forse alla vita? | |
ARBACE | |
E questa vita, o padre, | |
che mai la credi? | |
ARTABANO | |
Il maggior dono, o figlio, | |
675 | che far possan gli dei. |
ARBACE | |
La vita è un bene | |
che usandone si scema. Ogni momento, | |
ch’altri ne gode, è un passo | |
che al termine avvicina e dalle fasce | |
si comincia a morir, quando si nasce. | |
ARTABANO | |
680 | E dovrò per salvarti |
contender teco? Altra ragion per ora | |
non ricercar che il cenno mio. T’affretta. | |
ARBACE | |
No, perdona; sia questo | |
il tuo cenno primiero | |
685 | trasgredito da me. |
ARTABANO | |
Vinca la forza | |
le resistenze tue. Sieguimi. (Va a prenderlo) | |
ARBACE | |
In pace (Si scosta) | |
lasciami, o padre. A troppo gran cimento | |
riduci il mio rispetto. Ah, se mi sforzi, | |
farò... | |
ARTABANO | |
Minacci, ingrato? | |
690 | Parla, di’, che farai? |
ARBACE | |
Nol so; ma tutto | |
farò per non seguirti. | |
ARTABANO | |
E ben vediamo | |
chi di noi vincerà. Sieguimi, andiamo. (Lo prende per mano) | |
ARBACE | |
Custodi, olà. | |
ARTABANO | |
T’accheta. | |
ARBACE | |
Olà, custodi, | |
rendetemi i miei lacci. Al carcer mio | |
695 | guidatemi di nuovo. (Artabano lascia Arbace vedendo i custodi) |
ARTABANO | |
(Ardo di sdegno). | |
ARBACE | |
Padre, un addio. | |
ARTABANO | |
Va’, non t’ascolto, indegno. |
Fulcro ed esito determinante della scena è l'aria solistica, il momento in cui l'azione si ferma, il tempo è cristallizzato, e il personaggio reagisce o riflette sui fatti appena accaduti. Le arie esprimono i cosiddetti "affetti", rappresentano cioè di volta in volta un'immagine affettiva astratta o una precisa atmosfera sentimentale (fierezza, angoscia, amore fedele, affanno, ira...), commuovendo lo spettatore con al forza e la rappresentazione dei più svariati sentimenti che dilaniano i personaggi nel corso del dramma. Le arie sono accuratamente concepite secondo un preciso piano drammaturgico: mai si susseguono due arie di uguale o simile colore affettivo, e raramente allo stesso personaggio vengono affidate più arie del medesimo tono emotivo. Prendiamo le arie del protagonista per esemplificare quanto appena detto:
Arbace è l'eroe del dramma: figlio devoto, amante fedele e appassionato, suddito e amico leale. L'apparizione del padre che gli consegna la spada insanguinata senza fornirgli spiegazione alcuna lo pone in uno stato di profonda agitazione (Atto I, scena 2):
Fra cento affanni e cento
palpito, fremo e sento
che freddo dalle vene
fugge il mio sangue al cor.
Prevedo del mio bene
il marbaro martiro
e la virtù sospiro
che perde il genitor.
L'agitazione diventa completo smarrimento, espresso in una magnifica aria "di tempesta", quando tutto crolla in capo allo sventurato ed innocente ragazzo, additato come assassino dal padre, disprezzato dall'amata Mandane e abbandonato dalla sorella (Atto I, scena 15):
Vo solcando un mar crudele
senza vele e senza sarte;
freme l'onda, il ciel s'imbruna
cresce il vento e manca l'arte;
e il voler della fortuna
son costretto a seguitar.
Infelice! In questo stato
son da tutti abbandonato;
meco sola è l'innocenza
che mi porta a naufragar.
Nel momento più nero, quando Artabano lo condanna a morte, si mostra l'eroe in tutta la sua grandezza. Arbace non piange l'ingiustizia, non deplora la sorte crudele: la preghiera, l'ultimo desiderio del condannato, che rivolge al padre, è tutta ispirata al bene della patria e delle persone amate, per il quale è disposto a sacrificare senza proteste la propria vita (Atto II, scena 11):
Per quel paterno amplesso
per questo estremo addio
conservami te stesso,
placami l'idol mio,
difendimi il mio re.
Vado a morir beato
se della Persia il fato
tutto si sfoga in me.
Per quel paterno amplesso
per questo estremo addio
conservami te stesso,
placami l'idol mio,
difendimi il mio re.
Vado a morir beato
se della Persia il fato
tutto si sfoga in me.
Il re è arbitro dei destini degli altri personaggi e un suo atto di magnanimità ha funzione risolutiva nel momento culminante del dramma. La forza risolutrice non proviene perciò dall'esterno, attraverso l'intervento di un deus ex machina - come spesso accade nell'opera francese - ma dall'ambiente stesso dei personaggi tramite un atto di grazia e di generosità del principe: Metastasio celebra il potere sovrano e le virtù regali. E non a caso il coro che chiude l'opera proprio alle virtù sovrane inneggia
quando premia col perdono
d'un eroe la fedeltà.
La giustizia è bella allora
che compagna ha la pietà.
Giusto re la Persia adora
la clemenza assisa in tronoquando premia col perdono
d'un eroe la fedeltà.
La giustizia è bella allora
che compagna ha la pietà.
Qui il libretto: Artaserse
Caro Megacle,
RispondiEliminaè indubbiamente uno dei tuoi articoli migliori, scritto in modo chiaro e con dei pratici e semplici esempi che facilitano la comprensione a ciascuno (a me hihi). Mi colpisce, sopratutto, lo strano metodo con cui sono state incatenate le rime...a volte ritroviamo un A che era nella prima strofa all'inizio dell'altra, e poi il testo prosegue in baciata, davvero insolito. Complimenti e saluti!