martedì 22 novembre 2011

"Una porcheria tedesca": Osservazioni su La clemenza di Tito



Il 1791 è un anno cruciale, l'anno degli ultimi capolavori del genio salisburghese. Tra di essi si colloca senza ombra di dubbio La clemenza di Tito, opera celebrativa dell'incoronazione di Leopoldo II d'Asburgo a Re di Boemia, su un meraviglioso libretto di Metastasio (lodato, tra gli altri, anche da Voltaire) rimaneggiato per l'occasione da Caterino Mazzolà, poeta di corte a Dresda in prestito a Vienna dopo l'esilio di Da Ponte. 

Secondo una leggenda tanto inverosimile quanto dura a morire (solamente Piero Buscaroli ha recentemente avuto il coraggio di sfidare la versione "ufficiale" e mettere in luce tutta l'assurdità di una tale idea), venne composta in soli 18 giorni, con l'aiuto dell'allievo Sussmayr che stende i recitativi.
Praga è una città colta e animata, nodo centrale della cultura tedesca che ha sempre dimostrato il suo affetto più sincero per Mozart, a differenza di Vienna, ipocrita, gretta e ignorante. Nella capitale imperiale, Mozart è ignorato: sdegnosamente evitato dalla nobiltà offesa dalle sue opere comiche e malvisto dalla Corte - troppo compromesso con un regime (quello di Giuseppe II appena terminato) che ha portato l'Impero sull'orlo della rivolta - mentre la Germania intera lo saluta quale Orfeo tedesco. La sera del 6 settembre, in un teatro aperto gratuitamente per l'occasione, l'opera ottiene un successo scarso. Piace all'Imperatore, estasiato dalla protagonista femminile, ma è sprezzantemente liquidato dall'augusta consorte come "porcheria tedesca". Maria Luisa di Borbone inaugura la polemica dello snobismo belcantistico italiano contro la vocalità "sinfonica" tedesca, che giungerà fino alle stupide osservazioni di Verdi su Beethoven che dispone male le parti nella nona sinfonia. Nonostante l'opera abbia riconquistato ampio consenso nel corso delle repliche, mantenendo fama e ammirazione fino agli anni '30 dell'Ottocento, la quasi totalità della critica musicale si è accodata al giudizio dell'Imperatrice. "Un pezzo da museo, dramma solenne e freddo (Dent); un relitto fin dal momento della sua nascita (Hildesheimer); una coriacea e noiosa tragedia (Davenport); apologetica e alquanto stantia" (Paumgartner). Si fatica a credere che nomi tanto quotati abbiano potuto scrivere simili idiozie. Si tratta certamente di un lavoro ineguale e incompleto, ma che contiene "le più alte e raggianti pagine mai scritte da Mozart per la scena" (Buscaroli). Come non rimanere folgorati di fronte al finale del primo atto, ai rondò di Sesto e Vitellia, alla ricchezza smagliante dell'ouverture?




Il giudizio su quest'opera è da sempre falsato dalla visione dell'ultimo anno di vita mozartiano come un inesorabile corteo funebre verso il destino, e con incessante piagnisteo la Clemenza viene additata come fastidioso inciampo al compimento dei testamenti spirituali (tali solamente nelle teste dei musicologi) del salisburghese. Per di più che il Flauto magico era già ampiamente composto, e non era certo con un dramma popolare sullo scalcagnato libretto di Schikaneder che Mozart contava di guadagnarsi "onore e fama" come continuamente ripete nelle sue lettere.

La Clemenza di Tito è un'opera ambiziosa, di certo non un passo indietro alla vecchia opera seria, ma il primo passo avanti verso una nuova dignità artistica della stessa, un percorso interrotto solamente dalla morte improvvisa e inaspettata di Wolfgang. L'adattamento di Mazzolà mantiene appieno la sostanza poetica del dramma, modificandone la forma drammatica ormai invecchiata e non confacente al nuovo stile mozartiano, con quei grandiosi pezzi d'insieme che costituiscono i caratteri più progrediti e innovativi della commistione tra generi che Mozart sta sperimentando dal 1781. Ridotta a vera opera scriverà Wolfgang nel suo catalogo, intendendone l'aggiornamento alla moda nuova così da renderla nuovamente e perfettamente utilizzabile; "ora tornava a suggerirgli l'alta emozione e i superiori sentimenti che da troppo tempo si era rassegnato a non più chiedere all'Opera: l'ethos severo e splendido dell'antica Roma, il gesto della tragedia musicale al cospetto della storia".




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5 commenti:

  1. La Clemenza di Tito è l'opera di Mozart che trovo più vicina, nonostante la differenza d'argomento e di tono, al Così fan tutte: l'orchestrazione, pur bisognosa di ampliamenti che Mozart avrebbe realizzato in un secondo tempo, conferma i segni di rinnovamento già presenti nel "frivolo" dramma giocoso; anche il trattamento delle voci femminili prosegue sulla stessa linea di rarefazione, con effetti davvero di "un'altezza che leva il respiro" (Buscaroli).

    Quanto al coevo Flauto magico, le arie per Sesto e Vitellia rimandano a quella per Pamina, condividendo con essa lo stesso senso del sublime.

    Il giudizio dei critici può forse spiegarsi con le aspettative dei medesimi: dopo un filotto di opere buffe con relativo singspiel in coda, un ritorno all'opera seria può sembrare una contraddizione in termini. Niente di più falso: Mozart è se stesso anche qui, anzi persino oltre se stesso nei recitativi accompagnati e nelle scene d'insieme.

    Kraus

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  2. IL problema dei critici è che partono tutti da un assunto mai dimostrato (né dimostrabile): la "credenza" che Mozart non fosse minimamente interessato al genere, che la commissione gli giunse sgradita e indesiderata. I musicologi vedono morte e presagi funesti dove non ci sono, si abbeverano alla fonte delle colossali baggianate di Constanze senza prestare attenzione al complesso di felicità e speranze che traspirano dalle sue lettere e dai suoi lavori. Se c'è un lavoro che scrisse di malavoglia non è certo la Clemenza, ma il Requiem

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  3. Non abbiamo oltretutto testimonianze di questa pretesa antipatia nei confronti dell'opera seria, nonostante il corpus epistolare di Mozart sia sterminato.

    Al contrario: basterebbe rileggere la "cronaca in diretta" sull'Idomeneo nelle lettere al padre per dimostrare almeno quanto Mozart avesse a cuore quell'opera. Né si ha notizia in alcun modo che l'opera seria gli fosse venuta nel frattempo a noia quando compose la Clemenza.

    Kraus

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  4. Tra l'altro leggevo l'opinione di Adorno, che è forse l'unico che notava un'involuzione stilistica nella Zauberflote e nel Requiem, ma non nella Clemenza. E devo dare atto, dopo le citazioni negative dei musicologi, che almeno Robbins-Landon ne da un giudizio positivo, e (caso quasi unico) mostra forte scetticismo verso la leggenda dei 18 giorni, anche grazie all'analisi cartacea dell'autografo

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  5. Nella Zauberflote veramente non avevo mai notato alcuna involuzione, anzi mi sembra l'opera mozartiana che più si avvicina a Wagner...

    Certamente d'accordo, invece, sui progressi riscontrati nella Clemenza, che s'innesta nel glorioso percorso del III stile mozartiano, inaugurato dal Così fan tutte e da capolavori come il sorprendente Trio-Divertimento KV 563, il Quintetto e il Concerto per clarinetto.

    Kraus

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